Dopo quasi tre anni torna a trieste Francesca Morello, in arte R.Y.F. Francesca si mette a nudo con il suo secondo album, Shameful Tomboy, come suggerisce l’artwork del disco, è sulla sua pelle che sono impressi i dieci nuovi brani che ne fanno parte, da lei scritti e suonati nel corso degli ultimi due anni.
Veneta residente a Ravenna, R.Y.F. – se ve lo state domandando, l’acronimo sta per Restless Yellow Flowers e proviene da Il maestro e Margherita di Bulgakov – si guarda dentro e non rinuncia a prendere posizione su argomenti importanti, sempre più importanti. A seguire l’EP autoprodotto Some Years Ago But Now… del 2012 e il vero e proprio esordio da solista Love Songs For Freaks & Dead Souls del 2016, pubblicato da Brutture Moderne e dedicato a tutti i “diversi” là fuori, Shameful Tomboy è il suo lavoro più personale, registrato interamente in analogico con strumenti ed effetti vintage e improntato a un mix minimale, dal sound scuro eppure caldo, al contempo ruvido e melodico, di neofolk, sadcore, doom rock e punk blues. Riallacciandosi a un background che affonda le radici negli anni 90, da PJ Harvey ai Nirvana, dagli Smashing Pumpkins ai Tool.
R.Y.F. fa tutto da sola, dividendosi fra canto brutale/intimista e chitarre sia elettriche sia acustiche: “Di base uso una chitarra Gretsch Hollow Body e la mia vecchia acustica della Fender, la prima che io abbia mai posseduto”. L’unico contributo esterno è di Roberto Villa – responsabile delle registrazioni svoltesi appunto su nastro allo studio L’Amor Mio Non Muore di Forlì – che ha aggiunto il contrabbasso nello spettrale pezzo Raised To Kill, quasi in linea con Chelsea Wolfe: “We were raised to kill / All we have inside”. Siamo stati cresciuti per uccidere tutto ciò che abbiamo dentro… Raised To Kill si collega così all’essenziale pathos autobiografico della title-track, ultima canzone in scaletta ma prima a essere stata composta: “Shameful Tomboy parla del primo schiaffo che ho ricevuto dalla società, ad appena cinque anni. All’epoca frequentavo un asilo gestito da suore e una di loro mi accusò di essere ‘vergognosa’ perché, da appassionata del cartone animato He-Man and the Masters of the Universe, volevo giocare assieme ai miei compagni e compagne con la riproduzione del castello di Grayskull, che avevo ricevuto in regalo: un comportamento da ‘maschiaccio’, sufficiente a destabilizzare i ruoli di genere…”. Non a caso il testo recita: “You called me shameful tomboy / And I was only 5”.
Nel mirino ci sono i veleni dell’intolleranza, c’è il senso di colpa filo-cattolico indotto da regole ingannevoli. Altri episodi-chiave nel rappresentare le tematiche-manifesto del disco sono i singoli Queer Riot, piccolo manuale di stregoneria resistente (“We need to shout louder / Because they don’t understand”), e la presa di coscienza via drum machine tra Nine Inch Nails e Peaches di 1st Times (“Then I realize I was really really gay / Cause I can love the world whatever sex it may be”). Per continuare con la ribelle Lucifer – “No more patriarchy, no more slavery” – e l’imperioso crescendo elettrico con voci in angosciante moltiplicazione di Silence Makes Noise, dove il rumore assordante è quello dell’indifferenza. Il songwriting di R.Y.F. è incisivo e fieramente queer. “Mi sento super corazzata, ma anche piena di cicatrici. Essere queer è essere ciò che si è, senza condizionamenti sociali. Essere queer significa rompere i paletti che qualcuno ha deciso di imporre agli altri, significa ridare dignità a chi viene privato della parità di diritti e valorizzare il ‘femminile’ – nel senso più ampio del termine – che viene oltraggiato tutti i giorni tanto dagli uomini quanto dalle donne, dalla connotazione negativa attribuitagli dal patriarcato. A costo di dover alzare la voce”.
Oltre che per lo strumentale Valley Of Tears Invading My Mind, c’è poi spazio per l’elaborazione di paure e dolori con la ballata post-darkwave Always Late, oppure con l’intensa introspezione di Take My Soul e All Sweat & Love: “Mi sono sentita muta a lungo. Ma oggi le cose sono cambiate: la musica, per me, è un conforto e un’esigenza comunicativa”. È il momento di ascoltare Shameful Tomboy: la vita è breve e il futuro è queer!