Il massacro in atto a Gaza e in Cisgiordania trova le sue cause in una storia ben più lunga e ben più complessa del criminale attacco di Hamas del 7 ottobre scorso. Questa situazione si inserisce in pieno nel quadro delle guerre che stanno ridefinendo lo scacchiere internazionale, di cui il cosiddetto Medio Oriente è da sempre un nodo cruciale. Fin dalla sua costituzione lo stato d’Israele ha cercato di accaparrarsi le risorse della regione, in particolare l’acqua tramite la successiva occupazione delle alture del Golan e della valle del Giordano. Negli ultimi anni ha giocato una funzione strategica la scoperta di ricchi giacimenti di gas al largo delle coste di Gaza.
Dal 2020 sono stati firmati gli Accordi di Abramo tra Israele, Emirati e Bahrein. Questi accordi si sono successivamente allargati a Sudan e Marocco e stavano per essere firmati anche dall’Arabia Saudita, sancendo un’ulteriore tappa nella marginalizzazione della questione palestinesi che ha privilegiato gli interessi economici delle élite dell’area funzionali all’imperialismo occidentale.
La violenza in Palestina
Responsabile primo delle continue violenze che si susseguono senza sosta in Palestina è lo stato israeliano, che con la sua pluridecennale politica coloniale e razzista pratica un feroce apartheid contro le popolazioni palestinesi. Questo stato ha costruito una muraglia di ferro, cemento e filo spinato lunga centinaia di chilometri in Cisgiordania per difendere il frutto della rapina di terreni e fonti d’acqua e trasformato il territorio di Gaza in un enorme ghetto che bombarda ciclicamente, massacrando civili inermi nel silenzio del resto del mondo. Questa politica coloniale e razzista è sostenuta e legittimata da Stati Uniti ed Europa, che utilizzano Israele come perno delle loro mire egemoniche in quella regione. Questo sostegno in pratica incondizionato rende possibile allo stato d’Israele agire in modi che sarebbero altrimenti condannati e denunciati come criminali. È anche per favorire gli scopi dell’“Occidente” che ogni giorno la popolazione palestinese, a Gaza come in Cisgiordania, è sottoposta ad azioni arbitrarie, omicidi, violenze, espropri di terreni, vessazioni di ogni tipo da parte del governo israeliano e dei coloni, aizzati e armati dallo stesso governo che li utilizza per i lavori più sporchi di pulizia etnica.
Non bisogna dimenticare poi la natura sempre più confessionale dello Stato di Israele: da sempre, qualsiasi persona di origine ebraica, nata ovunque nel mondo, ha il diritto di trasferirsi in Israele e assumerne la cittadinanza. Negli ultimi anni la natura escludente dello stato israeliano è stata rafforzata dalla decisione della Knesset di dichiarare Israele “lo stato-nazione degli ebrei”. Negli ultimi decenni moltissime persone di discendenza ebraica dell’ex Unione Sovietica hanno approfittato di questa possibilità e fornito i contingenti di coloni necessari per alimentare la politica espansionista di Israele. Così come non è un caso che negli ultimi anni la destra religiosa sionista, il cui fanatismo religioso non è da meno di quello dei fondamentalisti islamici, abbia assunto sempre maggiore peso politico in Israele.
Hamas e fondamentalismo islamico, parte del problema non della soluzione
Sia chiaro che per noi non è assolutamente accettabile definire, come purtroppo fa qualcuno, un “atto di resistenza” il criminale attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha massacrato centinaia di civili disarmati utilizzando anche lo stupro come arma e condotta di guerra. Noi consideriamo Hamas per quello che è: una forza reazionaria di fanatici religiosi che nel loro statuto definiscono le rivoluzioni francese e russa come congiure ebraiche. Una forza che ha dietro di sé alcuni tra gli stati più oscurantisti del mondo: dalla monarchia Qatariota, alla Turchia di Erdogan, che massacra le popolazioni curde e cerca di soffocare l’esperienza rivoluzionaria del Rojava. D’altra parte, il governo Netanyahu utilizza Hamas come spauracchio per alimentare i suoi piani di colonizzazione dopo che, molti anni fa, altri governi israeliani hanno finanziato Hamas per opporlo all’ANP dividendo il fronte palestinese.
I bombardamenti incessanti che vanno avanti sul territorio di Gaza ormai da quattro mesi con violenza mai vista, rinforzati dall’invasione dell’esercito, stanno trasformando un territorio dove abitano due milioni e duecentomila esseri umani in un enorme killing field. I morti non si contano, e del resto non ha senso contarli. Non è per il numero di morti, ma per la qualità e gli obiettivi finali di Israele, che possiamo parlare di genocidio. Lo stato di Israele sta sottraendo ogni speranza di futuro alle persone che vivono a Gaza. Non è loro possibile immaginare o pianificare un futuro per la propria vita, né a livello collettivo, di comunità, di città, di territorio, ma nemmeno a livello individuale o familiare. Le persone che sopravvivono a Gaza lo fanno in un eterno presente di violenze, guerra, fame, malattie e morte. Tutte le energie sono dedicate e spremute fino all’osso per arrivare a sera, per mettere qualcosa nello stomaco e cercare di non finire ammazzati. Attenzione: questo non avviene per caso. Non è una “escalation” o un “inasprimento” di una guerra o di una operazione militare, speciale o meno. Qui c’è qualcosa di diverso. C’è un piano ben preciso di pulizia etnica, c’è la volontà, teorizzata sia a voce che per iscritto, e in seguito messa freddamente in pratica da Israele, di cancellare una precisa popolazione da un preciso territorio. Il ministro della difesa israeliano Gallant affermò il 9 ottobre, ordinando l’assedio totale di Gaza “Tutto è chiuso. Stiamo combattendo animali umani e ci comporteremo di conseguenza”. Sappiamo da tristi esempi del passato che disumanizzare il nemico è il primo passo necessario per rendere accettabile la sua eliminazione fisica.
Segnaliamo ancora un passaggio scritto dalla ministra per l’intelligence dello stato di Israele, Gila Gamliel, sul Jerusalem Post del 19 novembre. Questa funzionaria, ai massimi livelli del governo, propone di “promuovere il reinsediamento volontario dei palestinesi di Gaza al di fuori della Striscia.” Reinsediamento. Fin dalla Seconda guerra mondiale, quando venne utilizzato per mascherare gli orrendi crimini nazisti, il termine ha un preciso significato, e una cosa possiamo affermare con sicurezza: al di là dei ripugnanti eufemismi in politichese, tradotto in linguaggio umano, reinsediamento significa sempre deportazione. L’ennesima per le popolazioni palestinesi, verso altri campi profughi, verso altri territori estranei, verso altre vite fatte di nulla.
Due popoli due Stati? No due classi una rivoluzione sociale
Considerare la questione palestinese unicamente in termini di popolo e di liberazione nazionale porta molto lontano da una possibile soluzione. Consideriamo inefficace il concetto di “popoli oppressi” per comprendere le dinamiche dello sfruttamento. La definizione di “popolo” nasconde al suo interno le contraddizioni di classe e ogni tipo di discriminazione sociale o di genere (in alcuni casi anche religiosa o etnica) che può avvenire all’interno di un “popolo”. Tutti i movimenti di liberazione nati e cresciuti in nome del nazionalismo, anche quando hanno raggiunto l’obiettivo della cacciata del regime coloniale, hanno creato stati in cui nuovi ricchi sfruttano le classi lavoratrici, nuovi poteri le opprimono, nuove polizie le controllano. Dall’Irlanda al Mozambico, dall’India al Sudamerica, le condizioni delle classi sfruttate dopo le lotte di liberazione sono rimaste le stesse, è cambiata solo la nazionalità dei padroni. È comprensibile che le persone comuni, che devono lottare con tutte le proprie forze per sopravvivere, sperimentando ogni giorno violenze e sfruttamento da parte dello “straniero”, vedano solo in esso il nemico da combattere. Ma comprensibile non significa giusto né accettabile. Se una lotta di liberazione si declina in termini di popolo, termine interclassista che comprende sia élite che classi subalterne, se non è accompagnata da una rivoluzione sociale, sarà una lotta che porterà solo alla creazione di nuovi regimi di oppressione, burocrazie, eserciti, retoriche, sfruttamento. Dunque non ci riconosciamo nel concetto di popolo, ma nella necessità di una lotta intersezionale a tutte le forme di oppressione che rimetta al centro la lotta di classe.
In Cisgiordania e a Gaza il proletariato palestinese porta ricchezza sia al capitalismo israeliano che alle élite palestinesi, che campano sulla povertà degli altri come tutte le élite hanno sempre fatto. Lo sfruttamento di una forza lavoro a bassissimo costo porta denaro ai capitalisti di qualunque provenienza. Non scordiamoci che Gaza è amministrata da Hamas, e l’ANP amministra i frammentati territori della Cisgiordania. Queste organizzazioni hanno negli anni drenato ingentissime risorse in aiuti economici e umanitari, in teoria destinate alle persone più povere, utilizzandole per riprodurre sé stesse o arricchire i propri leader. Il proletariato palestinese deve fare i conti sia con un’oppressione di classe dall’interno che con una doppia oppressione, nazionale e di classe, da parte di Israele. E se chi fa parte delle classi superiori riesce spesso a salvare la pelle e la ricchezza, è il proletariato palestinese ad essere colpito in pieno dal genocidio in corso.
Ancora meno ci riconosciamo nella logica dei due Stati. Non solo l’opzione dei due stati ha già fallito storicamente nel caso israelo-palestinese a partire dagli anni Novanta, quando è stata tentata con gli accordi di Oslo. È lo stato in quanto tale che ha fallito come entità geopolitica vista l’incapacità, sempre più ampiamente riconosciuta degli stati nazionali (e delle loro associazioni sovranazionali) a gestire problemi globali come quelli del clima e delle migrazioni. Ancora più eclatante è il fallimento nel garantire la cosiddetta “pace” di cui lo Stato, con i suoi corpi armati e potentati economici, è la negazione stessa. Dall’Ucraina alla Palestina stiamo vedendo sempre più la criminale drammaticità dell’idea di sovranità territoriale associata al nazionalismo, per cui si deve massacrare o farsi massacrare per il controllo di qualche metro quadrato di “territorio”. Per questo, la soluzione che propone da sempre l’anarchismo sociale e organizzatore è la federazione organizzata dal basso, che abolisca i confini nazionali così come ogni fanatismo etnico, religioso o nazionalista. È solo facendo passare in primo luogo nella sensibilità di ognuno la nostra idea di sorellanza e fratellanza universale e solidarietà internazionalista che si potranno trovare soluzioni a questo dramma.
È per questo che, anche in questo scenario, sosteniamo quelle persone che nonostante tutto non ci stanno. Che rifiutano la logica dell’odio. Che rifiutano di farsi arruolare. Che lottano contro i governi di Israele, ANP e Hamas. Che combattono il fanatismo sionista e quello islamico, e lo fanno da anni, e a volte insieme. Refusenik, anarchic*, semplici persone. Cittadin* israelian* che si oppongono al loro governo, quasi sempre nel silenzio dei media. Cittadin* palestinesi che rifiutano il fanatismo e la corruzione di chi pretende di agire per loro. Queste persone hanno capito da che parte si trova il nemico. Si trova dalla parte di chi comanda, di chi aizza l’odio, di chi perpetua le stragi per perpetuare sé stesso, di chi utilizza questa immane tragedia per le proprie mire geopolitiche. Sanno che il nemico non è il palestinese, non è l’ebreo. I nemici di tutti sono Israele, Hamas, ANP, Stati Uniti, Russia, Unione Europea, Turchia, Qatar, Cina, Arabia, e chiunque abbia causato lo spargimento di una sola goccia di sangue per ottenere un misero vantaggio. Gli stati servono solo a riprodurre logiche di potere e sopraffazione, di guerra e sfruttamento.
Perciò, in questa come in tutte le guerre, sosteniamo attivamente, oltre alle vittime civili di tutti gli schieramenti, coloro che obiettano, che disertano, che disobbediscono agli ordini dei rispettivi governi, che rifiutano la logica militarista e nazionalista e vi si sottraggono. Se un giorno le cose cambieranno sarà perché queste persone, dopo aver denunciato e ridotto al silenzio chi ha commesso crimini orribili in loro nome, costruiranno insieme una società diversa. Quello che serve è una società senza stati, senza il bisogno dei governi corrotti dell’ANP o di quelli assassini di Israele e Hamas. Federazioni di comunità libere e organizzate su basi di classe, non religiose e non etniche. E per questo è necessario lottare, in Palestina come nel resto del mondo, con una prospettiva libertaria, internazionalista e federalista.
Da parte nostra, contrastiamo da un punto di vista antimilitarista quanti in Italia sostengono il genocidio perpetrato dall’esercito israeliano sulla popolazione Gazawi, a partire dal governo italiano che arma l’esercito israeliano e allo stesso tempo intrattiene legami commerciali con altri partner come il Qatar, e addirittura taglia i fondi UNRWA per gli aiuti alimentari e sanitari alla popolazione civile. Allo stesso modo ci opponiamo alla nuova missione militare italiana nel Mar Rosso, a quella in Libano e a tutte le missioni militari italiane all’estero.
Approvato dal Convegno della FAI di Carrara del 10-11 febbraio 2024
https://umanitanova.org/dal-convegno-fai-fermiamo-il-genocidio-a-gaza/