RIFLESSIONI SULLA RIVOLTA NEGLI STATI UNITI

Testo del volantino che abbiamo distribuito sabato al presidio “Say Their name”

Il fatto che ci si ritrovi in piazza oggi non solo per esprimere solidarietà alle manifestazioni negli Stati Uniti ma anche e soprattutto per parlare del razzismo strutturale e della violenza istituzionale presenti qui da noi pensiamo sia una cosa fondamentale. Detto questo ci pare importante portare comunque dei ragionamenti su quello che sta avvenendo dall’altra parte dell’oceano.

L’assassinio di George Floyd, mostrato per nove interminabili minuti di metodica violenza, è stato la scintilla che ha fatto saltare una polveriera sociale. Negli ultimi cinque anni la polizia ha ucciso circa ottomila persone negli Stati Uniti. Buona parte erano afroamericani e latinos.
Gli States sono una società profondamente segmentata, sia socialmente che spazialmente, una società dove la linea della povertà si sovrappone a quella del colore.
Nei ghetti la polizia agisce con enorme violenza. Pestaggi, soprusi, insulti e omicidi sono normali. Chi sta nei ghetti o nelle zone “grigie”, rischia la vita ad ogni incontro con gli uomini e le donne in divisa. Nei quartieri poveri le persone che vi sono confinate sono state duramente colpite dalla pandemia. Il numero dei morti è enorme tra le minoranze razzializzate del paese.
L’assistenza sanitaria è negata a chi non ha un’assicurazione: chi vive ai margini non ha ricevuto nessuna diagnosi e nessuna cura. L’elite bianca e ricca ha avuto accesso a prevenzione, ospedali e medicine negati ai poveri neri, asiatici, nativi, latinos.
Di fronte ai supermercati assaliti e saccheggiati, alle banche danneggiate, alle auto di lusso fatte a pezzi, ci sono persone prive di libertà e diritti. In primis quello alla vita.

Quello che è importante vedere è che queste sommosse contengono dei segnali qualitativi importante (e non solo quantitativi sebbene anche questo dato sia notevolissimo) rispetto ai riots precedenti negli States (pensiamo alle rivolte di metà anni ’60 a Detroit o a quella di Los Angeles nel 1992). Non solo e non tanto perché coinvolgono sia soggetti razzializzati che bianchi ma anche perché stanno ridisegnando in senso solidale e conflittuale lo spazio urbano. Uscendo dai ghetti (dove di fatto si erano autoconfinate le rivolte precedenti) hanno investito interamente le città sconvolgendone in maniera profonda la vita. Non sono quindi gli scontri con le varie forze di polizia e della guardia nazionale a segnare la radicalità di queste sommosse ma è quello che avviene dietro le barricate che da il segno di qualcosa di diverso. Dalla distribuzione gratuita nei quartieri popolari di cibo espropriato all’abbattimento dei simboli del suprematismo bianco, dalle varie forme di autoorganizzazione per resistere alla violenza statale alla creazione di zone liberate. In particolare l’esperienza della “Comune di Seattle”, dove un piccolo pezzo di centro cittadino è stato dichiarato “zona liberata” segna un salto enorme sia pratico che di immaginario. Pur con le ovvie differenze possiamo vedere la stessa voglia di libertà e autogestione, la stessa gioia nella lotta che abbiamo visto nella Libera Repubblica della Maddalena in Valsusa o nelle ZAD francesi e in tante altre zone del pianeta negli ultimi anni. Scendere in piazza e scontrarsi frontalmente con gli apparati statali diventa quindi non un fine in sé, ma diventa un mezzo non solo per sfogare la sacrosanta rabbia contro la violenza poliziesca, quanto per liberare spazi fisici e mentali, per praticare forme di autogestione sociale, per dare vita ad un esodo conflittuale dall’esistente. E’ chiaro anche che, quando una rivolta sociale vera si dispiega (cosa ben diversa dagli scontri di piazza agiti da minoranze di militanti), le annose discussioni su violenza-nonviolenza cambiano volto e tendono a ridursi. Se vi è chiarezza nella testa e soprattutto nel cuore su chi è il nemico – in questo caso l’intero apparato poliziesco – allora non vi è contrapposizione ad esempio fra chi sceglie di attaccare un commissariato e chi sceglie di far un sit-in pacifico sedendosi in mezzo ad una strada. Non vi è né la gara a chi è più radicale né vi è l’accusa di dividere il movimento. Sono solo diversi modi di entrare in azione.

Quello che sta avvenendo negli Usa ci ricorda ancora una volta che il dominio non è invincibile: movimenti sociali ampi e radicali possono darsi ovunque e possono mettere in seria difficoltà i governi se travalicano gli ambiti dei movimenti di opinione e si pongono direttamente – non diciamo nella teoria ma sicuramente nella pratica – come controsocietà che, mentre lotta contro l’oppressione, contemporaneamente inizia a prefigurare e praticare altri rapporti sociali.

E’ chiaro che non possiamo stare qui fermi ad attendere che qualcosa accada, ma dobbiamo darci da fare giorno per giorno, per mettere in campo sia lotte specifiche su vari terreni concreti del vivere quotidiano (casa, lavoro, servizi sociali) che intessendo reti solidali dal basso nei nostri quartieri che fin da subito mettano in campo rapporti sociali non mercificati. Costruire insomma organizzazioni sociali radicate sui territori che sappiano intersecarsi con le lotte che man mano si daranno traendo linfa reciprocamente le une dalle altre.

Lottare contro l’oppressione e il razzismo dove viviamo è il miglior modo che abbiamo per mostrare veramente la nostra solidarietà.

Gruppo Anarchico Germinal– Trieste

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