Con questo testo vogliamo offrire delle riflessioni sul movimento transfemminista contemporaneo, partendo da dinamiche locali che ci hanno visto partecipi negli ultimi anni, nella speranza di poter offrire una critica costruttiva ed utile anche ad altrə, al di là delle vicende specifiche.
Da un lato ci siamo chiestə cosa intendiamo quando utilizziamo il termine “intersezionalità” di cui tanto si parla nei movimenti (spesso, dal nostro punto di vista, a sproposito). Dall’altro vogliamo proporre una riflessione sui concetti di privilegio e decolonialità. Anche questi due termini attraversano gli spazi e i discorsi femministi, ma a volte, ci sembra, in maniera quasi meccanica, con degli automatismi che possono generare cortocircuiti logico/politici. Questi concetti hanno delle storie “militanti”, così come delle formulazioni teoriche interessanti, e sono a nostro parere strumenti potenzialmente validi. Ma sono appunto strumenti, non dogmi o etichette da appiccicare acriticamente.
Crediamo che negli ultimi anni le questioni poste dai movimenti femministi, transfemministi e queer abbiano finalmente messo il patriarcato al centro della critica politico-sociale e delle lotte dei movimenti. Il patriarcato è uno dei principali strumenti di potere e disciplinamento di una struttura sociale, politica ed economica che ci viene imposta come unica, naturale, giusta e connaturata nella stessa esistenza umana.
Quando diciamo che il patriarcato è strutturale all’organizzazione sociale e all’esercizio del potere delle istituzioni, non ci riferiamo certo al solo aspetto giuridico. Si tratta di una complessiva strutturazione sociale che attribuisce agli uomini in quanto tali maggior potere, controllo, autorità, rappresentazione e voce nello spazio pubblico; tale potere risulterà tanto maggiore, quanto i soggetti incarnati rispondono ai canoni del “virile”. Specularmente, per lo sguardo patriarcale le donne sarebbero “naturalmente portate” al materno, alla cura, all’ascolto e, in generale, alla presa in carico emotiva della specie. Una suddivisione in ruoli “ideali”, rispondenti ad un’idea fissa di cosa sia un uomo e cosa sia una donna – ovviamente non considerando affatto altre opzioni non binarie – che ha fortissime ripercussioni materiali.
All’aspetto giuridico si affianca l’aspetto materiale, che in Italia riguarda ad esempio la disparità salariale o la composizione di genere degli apici di istituzioni e aziende. Sulle donne (o soggettività identificate come tali) si scarica inoltre quasi sempre la maggior parte, se non la totalità, del peso della “conciliazione” fra lavoro produttivo e lavoro di cura e riproduttivo, che ancora spetta alla componente femminile all’interno del nucleo familiare, soprattutto in termini mentali ed emotivi, oltre che materiali.
Vogliamo portare come esempio pratico un dato poco citato ma significativo ed agghiacciante: i femminicidi compiuti all’interno di coppie anziane in cui lei soffre di malattia cronica o demenza ed è assistita dal compagno sono più numerosi rispetto agli omicidi di uomini da parte di caregiver donne. Se questo dato rivela la mancanza di strutture sociali adeguate a far fronte alle esigenze di assistenza, ci dice anche, ancora una volta, quanto la mentalità sia ancorata ad una visione stereotipata dei generi: i mariti anziani disperati fanno fuori le compagne e poi tentano il suicidio, in molti casi certamente con un senso di solitudine ma anche per una disabitudine alla cura e alla gestione della sofferenza, propria e altrui.
Sappiamo benissimo quanto il genere imposto alla nascita e gli stereotipi ad esso associati condizionino in maniera concreta e significativa gli immaginari, i desideri, le posture e gli sguardi sul mondo di tuttə. Ed è piuttosto evidente che nessunə di noi può ritenersi “liberə” da questi condizionamenti solo perché si definisce anarchicə. Quasi un secolo dopo Mujeres Libres,[1] dobbiamo ancora ricordarci che il patriarcato non è una questione marginale e il femminismo non è “un problema delle donne”.
Intersezionalità e politiche identitarie
L’intersezionalità è una teoria critica, la cui origine viene fatta risalire agli scritti di Kimberlé Crenshaw, femminista e giurista statunitense, fra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento. In realtà anche in precedenza l’analisi intersezionale – intesa come analisi di come le diverse identità e categorie sociali si intreccino in forme di oppressione particolari e specifiche – era stata praticata da gruppi femministi marginalizzati e razzializzati. In fondo, quando le suffragette negli Usa si chiedevano se la concessione del voto ai neri avrebbe penalizzato le donne e Sojourner Truth faceva la famosa domanda “Ain’t I a Woman?”[2], proponeva di fatto un embrione di teoria intersezionale.
Oggi, l’intersezionalità è uno strumento di analisi del reale e come tale dovrebbe essere usato: un mezzo con cui possiamo capire, leggere, interpretare e giudicare la realtà. Secondo la nostra esperienza, invece, spesso la si utilizza a sproposito, come generico invito a “unire le lotte”, il che nel movimento femminista spesso si traduce in un presunto dovere di parlare di tutto e fare spazio a tuttə, facendo diventare tutto una “questione femminista”. Questa attitudine è ben diversa da quella dichiarata di rileggere il reale attraverso una lente femminista. Si tratta di un errore interpretativo che a nostro parere deriva anche in parte dall’utilizzo acritico di terminologie viste come più moderne o radicali, disperdendone la reale radicalità e riducendole a poco più che moda.
Infine, lo strumento intersezionale sembra a volte piegato alla logica dell’elencazione delle proprie oppressioni, per cui chi ne colleziona di più perde nella vita ma – ironicamente – acquisisce status all’interno del movimento. Invece l’analisi intersezionale non si struttura come la somma pura di oppressioni diverse, ma la loro messa a sistema. Di seguito proponiamo alcuni esempi, non per costruire a nostra volta un “catalogo” ma solo per cercare di spiegarci meglio.
Uomini omosessuali neri: la discriminazione subita da questi soggetti non è la somma algebrica del loro essere gay + il loro essere neri. Nelle società a prevalenza bianca ed etero essi paradossalmente possono essere più tollerati rispetto agli uomini neri etero, che vengono ritenuti portatori di una sessualità animalesca, e quindi una minaccia alle “nostre donne” (più correttamente la minaccia è “ai nostri peni”, ma anche a i “nostri ani”, dove il “noi” sono i maschi bianchi etero che costituiscono la maggioranza normante). In compenso, nelle loro società di partenza o nelle comunità della diaspora, i gay dichiarati, oltre a subire un generico stigma, vengono pure etichettati come aderenti ai valori occidentali e quindi traditori delle proprie radici.
Donne disabili: le donne disabili non hanno semplicemente i problemi delle donne + i problemi delle persone disabili, ma i loro problemi si declinano spesso in maniera diversa. Ad esempio, mentre molte donne subiscono una sessualizzazione costante e non voluta, spesso le attiviste disabili rimarcano come invece loro siano costantemente infantilizzate e la loro sessualità totalmente misconosciuta. Anche in termini di riproduzione e aborto, non hanno certo la pressione a procreare a tutti i costi che hanno le donne non-disabili; al contrario, il loro eventuale desiderio di genitorialità viene spesso ferocemente ostacolato.
Donne e riproduzione sociale: quando negli anni ’60 e ’70 le donne bianche borghesi negli USA lottavano per rivendicare il lavoro fuori casa, il non fare figli, la realizzazione professionale, le donne nere non sentivano propria tale battaglia; per loro occuparsi della propria casa e famiglia era invece un valore e un obiettivo, visto quante di loro passavano il tempo a curare famiglie altrui (in questo, sono illuminanti le pagine che all’argomento dedica bell hooks[3]).
L’uso distorto dell’intersezionalità esaspera la questione identitaria, portando il pensiero verso l’iperidentitarismo. Le politiche identitarie e delle minoranze sono entrambe figlie del liberalismo e dell’individualismo esasperato di matrice anglosassone, dove spesso la questione di classe passa in secondo piano. La cosiddetta identity politics tende a “spezzettare” i movimenti in tanti aggregati portatori di specifici interessi; questi aggregati possono al massimo portare avanti una politica di alleanze, spesso con una scarsa se non nulla prospettiva di classe. Il perno di queste lotte risiede quasi sempre nella richiesta di riconoscimento statale o di forme specifiche di sostegno o tutela per ogni singolo gruppo (la cosiddetta “politica delle minoranze”). Difficile in quest’ottica trovare una prospettiva realmente rivoluzionaria. Il movimento femminista italiano ha invece una forte tradizione materialista, ma ci sembra che in questi ultimi anni la stia perdendo a favore di un’azione politica che attribuisce maggior importanza alla definizione/percezione di sé che al proprio ruolo sociale e di classe.
Crediamo sia necessario recuperare quanto di buono è stato pensato e prodotto dalle diverse correnti del femminismo materialista, per costruire un agire politico non incentrato solo sull’identità e sulla richiesta di tutela e/o riconoscimento, ma che coinvolga i rapporti di potere e le dinamiche materiali che li determinano.
Proviamo ad articolare un esempio concreto, parlando di politiche riproduttive. Sappiamo che non tutte le donne hanno un utero o sono fertili e anche che non tutte le persone potenzialmente gestanti sono donne. Questo è ovvio, ma ricordarlo non è banale o sbagliato. Tuttavia, i meccanismi di riproduzione sociale e i rapporti di forza fra i generi sono pesantemente condizionati, nella loro formazione storica e contemporanea, dal binomio donna-madre. Non possiamo eludere questa realtà, né per timore di essere “escludenti”, né con la speranza che il superamento del binarismo di genere avvenga per mero atto volontaristico o discenda da comportamenti individuali.
Privilegio e decolonialità
Le nuove ondate femministe/transfemministe/queer degli ultimi anni hanno avuto il merito di contribuire a porre l’attenzione dei movimenti sul colonialismo, in termini tanto storici quanto contemporanei. I movimenti transfemministi hanno quindi fatto da megafono alla diffusione degli studi e dello sguardo decoloniale; evidenziando le (proprie) posizioni di privilegio, tentano di smontare il preteso universalismo del soggetto politico “Donna”. Un “partire da sé” che si definisce su un piano collettivo e sociale. Non a caso da alcuni anni assistiamo anche in Italia ad una crescente presa di parola delle persone e delle collettività razzializzate e ad un confronto stimolante con il movimento antirazzista storico. Un dialogo che ha portato a volte ad un riconoscimento della condivisa esperienza dell’esclusione. Ad esempio, gli immigrati dal Sud della penisola degli anni ’60 e ’70 furono razzializzati nel Nord industriale, per poi essere via via sostituiti dagli ultimi nuovi arrivati, uomini e donne provenienti da geografie ancora più a Sud del mondo: una razzializzazione che non si basava sul colore della pelle, ma che aveva caratteristiche molto simili a quelle che subiscono i migranti di oggi.
Stiamo assistendo però negli ultimi tempi ad un cortocircuito del concetto di privilegio come strumento di critica sociale. Il riconoscimento della condizione di privilegio del cosiddetto Occidente rispetto ai paesi del cosiddetto Terzo/Quarto Mondo ha portato in molte situazioni di movimento dall’interpretazione dei dati materiali all’interpretazione in chiave essenzialista di quelli che sono i dati materiali. Il connubio assenza di privilegio/superiorità morale è un errore epistemologico che contribuisce a creare una nuova forma di essenzialismo in chiave morale.
In altre parole, ci pare di notare che l’esasperazione e la distorsione di questi strumenti di lettura e conoscenza del reale abbiano contribuito a generare una nuova forma di “terzomondismo”, in cui, oltre ad accettare acriticamente qualsiasi pratica o ideologia provenga dallə “oppressə”, vi è anche una sovradeterminazione delle loro stesse istanze. Assistiamo infatti a movimenti di solidarietà verso popolazioni in lotta in altre parti del mondo, su cui vengono proiettati desideri e prospettive politiche che invece sono tutti “nostrani”. Un esempio chiaro in questo senso sono alcune analisi e prese di posizione riguardanti la resistenza palestinese e i fatti del 7 Ottobre 2023 che circolano in Europa; li si dipinge addirittura come avanguardia della rivoluzione mondiale, quando è ben chiaro dalle prese di posizione e dalle azioni della maggioranza delle organizzazioni politico-militari lì operanti che la lotta in quei territori viene condotta in un’ottica di liberazione nazionale e di resistenza allo stato israeliano senza nessun afflato internazionalista.
Tale esasperata attribuzione ha, secondo noi, il sentore di una nuova forma di colonialismo ideologico, che non solo cancella ogni possibilità di confronto e di eventuale critica all’interno dei movimenti, ma che appiattisce e rimuove la complessità locale, le stratificazioni di classe e le diversità politiche che attraversano ogni luogo.
C’è, però, una differenza fondamentale tra il “vecchio terzomondismo” e il fenomeno che stiamo cercando di analizzare qui. La postura terzomondista/antimperialista (permetteteci una certa approssimazione) è comunque conseguenza di un’adesione ideologica o di un appoggio politico in chiave di opposizione, e discende da una scelta attiva. La postura decoloniale, nella sua volgarizzazione di movimento, sembra invece postulare l’impossibilità di una scelta: “nostro” ruolo può essere solo prendere atto e solidarizzare, fare da tribuna senza critica. È giusto e necessario mettere in discussione il nostro eurocentrismo e le pretese di universalismo e questa consapevolezza deve molto all’apporto delle teoriche e dei gruppi femministi. Riteniamo, però, che in ambito transfemminista e queer questa attitudine abbia talvolta assunto tratti quasi dogmatici e di sudditanza psicologica – a un soggetto peraltro spesso astratto e disincarnato – altamente problematici.
Alcune provvisorie conclusioni
Crediamo che il contributo teorico-pratico dei movimenti transfemministi e queer degli ultimi decenni, sia essenziale per tutti i movimenti che agiscono sul terreno della trasformazione sociale radicale dell’esistente. Crediamo che queste istanze e riflessioni – senza adesioni acritiche, così come senza preclusioni – debbano diventare parte integrante del nostro bagaglio. Ne siamo convintə perché pensiamo che un anarchismo che non sappia dare importanza alle questioni di genere sia un anarchismo monco. Ci sembra importante ribadire che riflessioni e pratiche vanno condivise e allargate, perché non sono una questione “delle compagne” né di alcuni gruppi “specializzati”. Riteniamo che l’anarchismo possa essere all’altezza delle sfide che questi nuovi movimenti ci pongono. Con la sua critica radicale alle strutture materiali della società che contribuiscono alla perpetuazione del patriarcato, l’anarchismo può essere una “casa” dove queste istanze trovano il loro spazio, al di fuori di ogni organizzazione autoritaria e verticistica. Si tratta di intessere relazioni e scambi sviluppando ambiti di lotta e conflitto. Ma prima ancora, si tratta di ricordare che il patriarcato innerva ogni realtà che ci circonda e pertanto ci riguarda tuttə. Di conseguenza, non può esserci una reale rivoluzione che non sovverta le relazioni patriarcali. Non può esserci anarchismo senza femminismo.
Gruppo Anarchico Germinal – Trieste
Pubblicato sul numero 4/2025 di Umanità Nova
[1] Organizzazione femminista fondata in Spagna nel 1936 per portare le istanze delle donne nel movimento anarchico e anarcosindacalista
[2] Sojourner Truth, nata Isabella Baumfree (1797?-1883) pronunciò il discorso “Ain’t I a woman?” (“Non sono forse una donna?”) al Convegno per i diritti delle donne dell’Ohio, nel Maggio 1851
[3] hooks ha scritto per tutta la vita dell’intersezione tra genere, “razza” e classe sociale, a partire dalla sua crescita come donna nera di famiglia povera. Molti suoi testi oggi sono facilmente reperibili in italiano; tra questi, Tamu ha pubblicato “Elogio del margine” e “Non sono una donna, io. Donne nere e femminismo” che affrontano (anche) le questioni da noi menzionate.
GLOSSARIO:
Razzializzate (persone/collettività): cui viene attribuita una razza. Il termine viene utilizzato allo scopo di “tenere assieme” più aspetti. Da un lato, dato che le razze non esistono, si cerca di porre l’accento sul processo che porta alla loro creazione sociale. Dall’altro però si vuole riconoscere che, sebbene le razze non esistano come elemento oggettivo, il fatto che socialmente si agisca come se esistessero, produce effetti reali. Insomma: le razze – come le nazioni o i popoli potremmo dire – non esistono come dato ontologico, ma esistono come dato sociale.
Coloniale: in riferimento al pensiero, tutte quelle formae mentis che tendono a confermare e perpetuare l’idea dell’intrinseca superiorità di una “razza” o di un’epistemologia. Ne sono esempi il “fardello dell’uomo bianco” o l’invasione dell’Afghanistan per “liberare le donne”
Postcoloniale/decoloniale: sempre in riferimento al pensiero, che cerca di interrogarsi e mettere a critica tutte le formae mentis di cui sopra. I due concetti non sono perfettamente sovrapponibili: alcunə, ad esempio, mettono l’accento sull’importanza politico/procedurale del prefisso de-; altrə ne fanno soprattutto una differenza di alveo di nascita (decoloniale viene soprattutto dall’ambito latino, postcoloniale da quelli (ex) francofoni e anglofoni). In ogni caso, entrambi i concetti ci sembra rispondano al medesimo intento di messa in discussione politica. Ad esempio, in antropologia, gli studi post-coloniali sviluppano una critica serrata alla disciplina stessa, ritenuta sia prodotto che strumento del colonialismo
Comunità della diaspora: con questo termine intendiamo quelle collettività che si creano nei paesi di arrivo (o transito) migratorio. Solitamente sono aggregate su base nazionale (es: “la comunità cinese di Prato”) o sovranazionale (es: “l’associazione degli studenti africani della Sapienza), talvolta religiosa (es: i fedeli del tempio shivaita di Brick Lane a Londra)
Immagine: “La penultima zena” di Marco Novak