REPRESSIONE, CARCERE, LIBERTÀ DI MANIFESTARE QUALCHE RIFLESSIONE PER IL DIBATTITO

Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un incremento della repressione statale e poliziesca, nel nome di una fantomatica sicurezza pubblica, sempre più improntata individualisticamente all’isolamento sociale. A Trieste, dopo la stagione pandemica, è diventato sempre più difficile manifestare nelle vie centrali; qualsiasi azione collettiva viene respinta dal salotto buono per essere relegata alle strade e piazze lontane dagli occhi dei turisti, ultimi destinatari della città.

Dissenso e voci contrarie vengono sistematicamente criminalizzate attraverso l’uso di misure giudiziarie pesantissime.

Viene applicato sempre più spesso quello che molti studiosi e attivisti definiscono “diritto penale del nemico”: il costituirsi de facto di un corpus giuridico riservato al “nemico interno” – migranti, marginali, oppositori politici – soggetti che, così come il soldato nemico in tempo di guerra, rappresentano l’“Altro radicale”, colui che è irrimediabilmente al di fuori del consesso civile e delle regole democratiche.

Ritornano in auge istituti giuridici mai abbandonati: dal reato di devastazione e saccheggio all’avviso orale, fino ai fogli di via che si affiancano a nuove misure repressive come il Daspo urbano.

Allo stesso modo, gli strumenti del 41bis e dell’ergastolo ostativo, legati nella retorica al periodo emergenziale della lotta alla mafia e delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, sono tutt’ora molto vivi e presenti nel nostro ordinamento e usati sperimentalmente nei confronti di persone che nulla hanno a che fare con la mafia, per ultimo Alfredo Cospito.

Il 41bis è un regime pensato come una misura emergenziale, ed emergenziali sono state le norme con cui hanno cominciato a proibire le manifestazioni nel centro città. Riteniamo che sia essenziale non cadere nel gioco in cui cercano di buttarci, spintə dall’urgenza di fare qualcosa, regalando un pretesto per alzare il livello di repressione: se l’emergenzialismo è il loro modo di agire, noi possiamo porci in un’ottica di solidarietà e collaborazione collettiva, contro chi ci isola e ci reprime.

SIAMO TUTTƏ SOTTO ATTACCO (OVVERO: IL DIRITTO PENALE DEL NEMICO)

Per parlare di repressione pensiamo sia importante innanzitutto fare una breve analisi del periodo che stiamo vivendo da un punto di vista sociale.

Per forza di cose e per necessità di sintesi sarà un quadro parziale, ma potrà essere uno spunto di riflessione per futuri confronti.

Da anni assistiamo ad un sistematico smantellamento delle strutture collettive e delle reti sociali e di relazione e alla sofferenza che ne consegue.

Nel mondo del lavoro l’introduzione di forme contrattuali differenti ha contribuito alla parcellizzazione delle categorie dei lavoratori e delle lavoratrici, che faticano a sviluppare lotte solidali e unitarie. Il modello del liberismo e della finanziarizzazione si è affermato con prepotenza, accolto con tappeti rossi da destra e da gran parte della sinistra come unico modello possibile. La condizione lavorativa generale nel mondo globalizzato non è certo migliorata dopo il periodo pandemico, anzi. Tutto questo in un quadro di sempre maggiore scarsità delle risorse del pianeta, vittima del criminale saccheggio perpetrato per decenni da un modello di sviluppo che vede ogni cosa come una risorsa da sfruttare per il profitto, in una visione solo consumistica della produzione.

La sanità è sempre più carente e la violenta spinta verso la privatizzazione ha fatto e continuerà a fare sempre più morti, lasciando nel dolore e nell’attesa di cure chi non potrà permettersi di rivolgersi a cliniche o professionisti privati.

Nella scuola le classi pollaio, la carenza di posti ai nidi e alle materne, le strutture fatiscenti, la bizantina e complessa burocrazia spacciata per trasparenza, la sistematica insufficienza di materiale didattico e non solo, sono il segno di un disinteresse generale verso l’educazione. I vari governi, che propongono di volta in volta di risolvere i problemi attraverso sponsorizzazioni private, trasformando gli istituti in aziende che debbono sapersi vendere, ci dicono che ogni cosa è merce da profitto, a partire dalla fasce più giovani della popolazione. Talvolta sono anche carne da cannone, nelle giornate in cui esercito, forze armate o forze di polizia vanno a fare propaganda per l’arruolamento volontario.

Le spinte verso l’atomizzazione e l’individualismo, che ci trasformano in illusi protagonisti di un attimo di celebrità attraverso i social, hanno contribuito a creare un potente immaginario in cui siamo tuttə irretitə, attonitə e operosə produttorə e riproduttorə. Lavoriamo gratis per le varie piattaforme private, convintə di stare agendo in libertà e non cogliendo i meccanismi di creazione di dipendenza, né la gabbia temporale e mentale, che ci costruiamo attorno.

Il clima di guerra sempre più pervade la nostra quotidianità: da anni ormai il confine ideologico fra guerra esterna e guerra interna si è fatto impalpabile e i militari nelle strade fanno oggi parte del paesaggio urbano. Di pari passo cresce il peso della lobby militare-industriale, salita direttamente al potere con vari esponenti in posti di governo (e non solo nell’esecutivo Meloni). Questo processo è accompagnato e favorito anche dai media mainstream che, specie da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, hanno intensificato la propaganda a favore del riarmo e dell’importanza della NATO.

In questo scenario lo Stato, attraverso i governi e le sue istituzioni, porta avanti da anni una continua e feroce criminalizzazione del dissenso. Le cose che accadono e che non sono in linea con l’immaginario sociale egemone vengono mostrificate con la complicità dei media mainstream e represse con lo scopo ultimo di soffocare ogni spinta non omologata.

Sempre più spesso per colpire i movimenti vengono adottate fattispecie di reato che solo alcuni anni fa potevano essere considerate eccezionali. Ma di fatto non esiste l’eccezionalità nell’ordinamento giuridico. I vari articoli restano in vigore: le leggi sono vive e vegete nei cassetti della giustizia.

Pensiamo ad esempio al Daspo, introdotto contro i tifosi e presto rimaneggiato, estendendo la possibilità di vietare a chiunque l’accesso a spazi, luoghi e/o momenti specifici.

Pensiamo al decreto cosiddetto “anti rave” che, anche a detta di diversi funzionari dell’“ordine”, complica una legislazione già stringente sulle occupazioni di suolo pubblico e privato.

Ma pensiamo anche e soprattutto allo sdoganamento del reato di devastazione e saccheggio (usato con successo sperimentalmente per la prima volta per i fatti del G8 di Genova nel 2001), un reato pensato per tempi di guerra. Si prevede tra le altre cose la correità per il semplice fatto di essere presenti nel luogo e nel momento in cui accadono fatti sanzionabili: si passa così dalla responsabilità individuale di ciascuno di fronte alla legge, alla responsabilità collettiva a prescindere dalle azioni del singolo.

Pensiamo alla sorveglianza speciale di fascista memoria, i cui casi più famosi hanno coinvolto negli ultimi anni alcunə compagnə ritornatə dal Rojava, ma che stava per essere comminata anche a un attivista di Ultima Generazione dopo una azione dimostrativa a Roma.

Pensiamo alle sempre più frequenti accuse di estorsione in risposta alle lotte del sindacalismo non concertativo. Pensiamo in ultimo – ma non certo per gravità – al reato di strage che mette in pericolo la sicurezza dello Stato (art. 285 c.p.) cui è stato condannato in ultima istanza Alfredo Cospito. È accusato di aver messo due bombe nei cassonetti nei pressi della scuola Carabinieri di Fossano; bombe che non hanno provocato né feriti né tantomeno morti. Si tratta di un altro pezzo da museo della giurisprudenza italiana, uno dei più pesanti articoli del codice penale attinenti ai reati di strage. Un articolo che non è stato usato nemmeno in seguito agli attentati mafiosi di Capaci e via d’Amelio o nelle stragi di piazza Fontana o di Bologna, opera di estremisti di destra con l’avvallo dei Servizi Segreti per nulla deviati.

Oggi viviamo tempi durissimi, in cui l’unica reale anomalia è la calma quasi piatta che regna nel nostro paese, nonostante l’aumentare progressivo e apparentemente inarrestabile della sofferenza sociale. La magistratura, colpendo un pugno di anarchicə e altre minoranze dell’opposizione sociale, sperimenta la possibilità di elevare ancor più l’asticella della repressione. Un’asticella che in questi anni si è costantemente alzata, estendendo la logica del diritto penale del nemico, già saggiata sui migranti, all’insieme dei movimenti auto-organizzati.

Crediamo che ciò possa accadere perché le leggi, al di là della cornice liberale e garantista in cui sono inserite, non sono altro che la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno di una società. Il loro portato repressivo è esattamente quello che lo Stato ritiene di potersi permettere. Quando le leggi cambiano in meglio è sempre su pressione di forze sociali ampie e determinate, capaci di mettere in difficoltà chi governa e gli apparati repressivi dello Stato. Lo ripetiamo: forze sociali ampie e determinate.

CONTRO CARCERE, 41BIS E ERGASTOLO OSTATIVO PER UNA SOCIETÀ SENZA GALERE

L’ordinamento giuridico italiano prevede pene di invasività crescente in proporzione a quella che ritiene essere la gravità del reato. La pena più grave è l’ergastolo con isolamento diurno, ma sulla base delle circostanze e del comportamento della persona detenuta, l’esecuzione della pena può prevedere degli aggravamenti della sua situazione oppure l’accesso a benefici come l’affidamento in prova, permessi premio, attività educative eccetera. L’ordinamento penitenziario, però, prevede che l’accesso a questi benefici sia precluso a detenutə condannatə all’ergastolo per alcuni reati considerati particolarmente gravi (delitti di mafia o commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico), trasformando il carcere a vita sostanzialmente in una condanna a morte, a meno che la persona detenuta non decida di “collaborare”. È questo l’istituto dell’“ergastolo ostativo”, contro cui negli anni si sono pronunciati già innumerevoli giuristə di aree ideologiche diverse e su cui ci sono state anche delle pronunce contrarie da parte di corti internazionali, regolarmente ignorate dall’Italia. Diversa è la questione del regime previsto dall’art. 41 bis, che, con il pretesto di isolare i leader di organizzazioni criminali, li condanna ad essere murati vivi in celle senza finestre, senza alcun contatto con l’esterno e addirittura impedendo di tenere fotografie e libri.

Si sa da evidenze certe sui corpi di coloro che sono statə sottopostə a questo regime per anni, che esso ha un effetto atrofizzante e disumanizzante del tutto pari alla tortura. Moltə non tornano più come prima dopo aver sperimentato questa punizione. Ma, posto che la vita in carcere prevede già delle fortissime limitazioni ai contatti con l’esterno, come la censura della posta, la sorveglianza dei colloqui, eccetera, l’applicazione di limitazioni sensoriali giudicate da più voci come tortura psicologica equivale a un’ammissione di fallimento del controllo che lo stato pretende di esercitare sulle persone detenute (e che manca completamente nel caso delle decine di suicidi in cella). La misura del 41 bis, preesistente all’attentato di Capaci ma mantenuta ostinatamente nell’ordinamento in nome della lotta antimafia, è particolarmente assurda quando applicata a Cospito, visto il carattere informale e anti-organizzativo della sua area di appartenenza. Invece il ministro Nordio si è spinto a dire che Cospito sia stato il mandante esplicito delle manifestazioni spontanee di rabbia avvenute in numerose città italiane e all’estero, che quindi anche dall’isolamento profondo e tombale di un carcere riuscisse a determinare le azioni di persone in tutta Europa. Figuriamoci.

Vale infine ricordare che in alcuni paesi anche europei l’ergastolo non esiste, o è limitato a reati gravissimi e di fatto mai applicato perché considerato sproporzionato alla finalità della pena.

Sebbene secondo le regole stesse dello Stato italiano la pena dovrebbe avere finalità rieducativa, (e anche su questo ci sarebbe molto da dire), è chiaro che essa viene applicata ipocritamente ed esclusivamente in modalità punitiva: una vendetta di Stato.

Preferiamo invece rivolgere lo sguardo all’esperienza rivoluzionaria del Rojava, in cui il carcere è solo l’extrema ratio per gli irriducibili, e ci sono dei percorsi di riconciliazione e restituzione che coinvolgono le famiglie delle vittime, perché l’individuo è considerato troppo importante per essere rinchiuso in una gabbia. E ancor prima, Michail Bakunin teorizzava nei suoi scritti l’esilio e l’ostracismo sociale come rimedio per l’asocialità del crimine, consegnando il carcere ad un regime superato.

Tutto il carcere è duro, non solo il 41 bis, tutto il carcere è inumano e ipocrita perché non “rieduca”. Consideriamo poi che le pene detentive vengono scontate in locali fatiscenti, inadeguati e in cui le condizioni sono talmente miserabili da minare gravemente la salute fisica e mentale dellə detenutə.

Il carcere si estende ben oltre le sue mura, tenendoci tuttə sotto minaccia attraverso l’osceno dispositivo della dissuasione, finalità che non ha niente a che vedere con la “rieducazione” prevista dall’articolo art 27 Cost. Agli stati conviene che le condizioni del carcere siano pessime, anche in ipocrita violazione delle loro stesse leggi, pur di mantenere viva l’illusione della dissuasione. In realtà non c’è nessuna correlazione tra la severità della pene previste da un ordinamento e il numero e la gravità dei reati che vi sono commessi. Nonostante questo, ogni proposta di riforma delle condizioni carcerarie viene sabotata, mentre le cause sociali del crimine rimangono inaffrontate.

Ma il carcere si sovraestende anche con i dispositivi di sorveglianza preventiva nelle città, nei controlli ai confini, nei cpr, nelle carceri libiche, negli istituti psichiatrici, attraverso l’inasprimento delle pene per reati esistenti e attraverso il mantenimento in vigore di disposizioni penali superate e liberticide, a disposizione di un’applicazione arbitraria al “nemico” di turno che dissente.

Dalla pena detentiva più semplice, al regime carcerario più sfavorevole, tutto l’universo carcerario è disumanizzante, inutile e dannoso.

CONTRO LA CITTÀ VETRINA, PER UNA SOCIALITÀ NON MERCIFICATA, DIFENDIAMO LA LIBERTÀ DI MANIFESTARE

Se finora abbiamo parlato del quadro a livello nazionale, ci pare importante arrivare alla situazione a Trieste.

All’inizio della pandemia da Covid-19 abbiamo assistito all’annientamento della possibilità di aggregazione di piazza, indistintamente di quale natura: dal divieto di presidi o cortei, in una prima fase dovuto alla diffusione del Coronavirus, all’assurdo divieto di frequentare luoghi isolati da solə, come se il solo respirare l’aria al di fuori delle finestre di casa – per chi ha il privilegio di averne una in cui vivere – rappresentasse un crimine contro la salute pubblica, con la conseguente caccia allə untorə a cui abbiamo assistito per le strade e nei media. La tendenza delle cosiddette “autorità” è stata, a partire da quel momento, di annientamento delle socialità costruttive: si è cercato, e si sta tuttora cercando, di limitare la socializzazione agli spazi virtuali, nei quali ciascunə è chiusə in una bolla solipsistica e la costruzione attiva delle relazioni è reclusa all’individualismo che ci tiene dietro a degli schermi, senza il contatto diretto con le altre soggettività e le problematiche reali che ci appartengono, oppure limitata ai mega eventi istituzionali e mercificati, dalla Barcolana alle grandi navi.

In una seconda fase di malagestione degli spazi cittadini, in cui pareva si stesse uscendo dall’emergenzialismo della situazione sanitaria, è affiorata la reale intenzione di queste operazioni: dal 1° novembre 2021 al 30 aprile 2022, a seguito di un’ordinanza del Comitato ordine e sicurezza pubblica, a Trieste è stata vietata qualsiasi manifestazione all’interno dei perimetri del centro cittadino. Il virus, evidentemente, si diffondeva in piazza Unità, sulle Rive e in Cavana, ma non in Campo San Giacomo, in Largo Barriera, nelle strade che, piuttosto che essere vissute dai turisti, sono attraversate dalle persone che questa città la vivono. Da quel momento in poi, l’intento è sempre stato lo stesso: far diventare il centro città salotto chic per i turisti che con le navi da crociera stanno partecipando alla distruzione di Trieste, trasformandola in un porto per navi-palazzo altamente impattanti per l’ambiente e in un luogo di consumo in cui regna l’egemonia di bar e negozi di lusso. Anche successivamente al termine del divieto di manifestazione in centro, infatti, la linea adottata è stata caratterizzata dal forte ostracismo nei confronti di manifestazioni e forme di socialità alternative, non incentrate sul profitto. Anche in tempi recenti, la Questura ha presentato diverse prescrizioni che hanno vietato l’accesso alle strade centrali della città, relegando cortei e presidi a zone in cui il dissenso passasse inavvertito dalla “popolazione buona” che frequenta quelle vie; un modo per far apparire Trieste agli occhi dei turisti una città tranquilla, senza problematiche sociali, in cui passeggiare tranquillamente perché tutto gira alla perfezione.

Questa però non è la realtà dei fatti: il malcontento sociale continua a crescere – così come le fasce di povertà – e i movimenti continuano ad attuare pratiche di solidarietà dal basso e di critica alle malefatte del governo centrale e dell’amministrazione locale. È estremamente grave come gli enti dedicati al disordine pubblico si siano resi attori di un vero e proprio accanimento repressivo contro alcuni gruppi e collettivi della città, che arbitrariamente hanno legato all’ambito dell’anarchismo. Temiamo che questo clima di repressione delle piazze e delle iniziative di socialità non mercificata, nel prossimo periodo andrà ad aumentare.

Far sentire la voce del movimento sta diventando sempre più ostico; per questo abbiamo bisogno di reti d’azione collettiva che puntino ad abbattere il muro della repressione, verso la riappropriazione degli spazi pubblici – anche quelli centrali divorati dalla gentrificazione – per la distruzione di un’immagine della città silenziosa, tranquilla, avulsa dalla disperata situazione sociale nella quale è immersa.

Crediamo che queste questioni debbano essere al centro delle prossime scadenze cittadine, con uno sguardo collettivo di lungo respiro che sappia allargare le nostre reti, costruendo e moltiplicando spazi di autogestione, di socialità non mercificata, di lotta.

Gruppo Anarchico Germinal Trieste

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