L’anarchico Tommasini e quel sogno di libertà dentro l’inferno del ’900
La versione originale in dialetto triestino Quando uscì la prima volta, pubblicata dalle Edizioni Antistato, Claudio Venza e Clara Germani si posero subito il problema. Mantenere la forma originale del fluviale racconto fartto da Umberto Tommasini, rigidamente in dialetto triestino, oppure trasformare il tutto in un italiano leggibile da tutti? Decisero di rispettare la forma originale: infatti il testo dell’«Anarchico triestino», questo il titolo dell’edizione del 1984, era in vernacolo. Adesso, invece, per la nuova edizione de «Il fabbro anarchico», pubblicato da Odradek, il dialetto triestino sarebbe stato di difficile lettura per i lettori del resto d’Italia. Così si è deciso di tradurre in italiano l’autobiografia dell’anarchico Tommasini.
Da “Il fabbro anarchico” di Umberto Tommasini pubblichiamo l’inizio dell’intervista di Claudio Venza a Claudio Magris, per gentile conmcessione della casa editrice Odradek. Magris: La cosa che colpisce anzitutto in Tommasini è la sua straordinaria capacità di pensare prima agli altri che a se stesso, di dedicare la vita alla libertà propria e degli altri. Non è una cosa molto frequente. Inoltre ha una notevole lucidità politica, chiare idee sui rapporti di forza, forse anche grazie all’esperienza fatta sulla pelle delle brulatità comunista. Ha una coscienza profonda, rara, della terribilità della storia contemporanea. Contemporaneamente, vive con assoluta spontaneità e semplicità, si esprime nel suo dialetto perché è l’espressione della sua persona. Non è affatto vernacolo né dialettale, perché ha una reale cultura che guarda al di l di ogni angusto orizzonte di campanile. Venza: In che senso “cultura”? Magris: Quanto alla cultura, ricordo che una volta Vidali mi aveva detto che, negli anni della sua giovinezza, non sapeva nemmeno che esistesse Svevo, tutto preso come era, della lotta politica. Naturalmente io adoro Svevo, lo considero uno dei grandissimi della letteratura mondiale, ancora da scoprire nonostante tutto ciò che si è detto e scritto su di lui; inoltre, per la mia formazione, mi interessa più Svevo di Vidali, mi interessano le straordinarie e demoniche intuizioni di Svevo più ancora di quelle, che pure mi interessano moltissimo, che riguardano la politica. Ma non considero affatto Vidali o Tommasini meno “colti” di Svevo. Spesso noi identifichiamo erroneamente la cosiddetta cultura con alcuni campi del sapere; importantissimi, a me molto cari, ma non certo gli unici né i più importanti. Se Vidali non aveva la capacità di capire Svevo, probabilmente nemmeno se avesse avuto tempo e modo di leggerlo (incapacità del resto condivisa, in quegli anni, da quasi tutti i critici letterari…), aveva però una capacità di capire la politica molto di più di quanta ne avesse Svevo. Come dimostra il suo atteggiamento di medio borghese rispetto alla ascesa del fascismo. Svevo capiva, forse senza nemmeno rendersene bene conto, i più profondi, inquietanti, demonici sommovimenti della civiltà, ma non capiva la dialettica politica, mentre per Vidali (o anche per Tommasini) era il contrario. Ora non è che l’una cosa sia più “cultura” dell’altra; sono due modi diversi di accostarsi al mondo, due culture, entrambe con la loro grandezza e il loro limite, entrambe degne del più profondo rispetto. Se dovessi dare una definizione di cultura, direi che è, in primo luogo, non la conoscenza di determinati saperi, bensì l’organica, spontenea unità tra quello che si sa, quello in cui si crede e quello che si è. E tutto questo lo troviamo in Tommasini. Quello che affascina in quest’ultimo è anche la calda umanità ottocentesca, che coesiste col suo impegno radicalmente novecentesco; talora sembra uscito da un romanzo di Tolstoi. Venza: O di Zola? Magris: Tommasini ha questa umanità classica, grazie alla quale con la stessa naturalezza rischia la pelle e passa serate in osteria, con una generosità completamente fusa col carattere. Questo è’ un aspetto della sua classicità, di umanità classica che la civiltà del Novecento lamenta – come testimoniano tante grandi opere letterarie – di aver perduto. Inoltre c’è la sua grande libertà; non solo libertà politica, lotta contro il fascismo e ogni autoritarismo e così via, ma anche la libertà nei gesti d’ogni giorno, la capacità di dire “va in mona” all’intellettuale persuntuoso. Tutto questo dà a Tommasini una straordinaria simbiosi di vicinanza alla terra, di sanguigna, picaresca umanità plebea e insieme di grande signorilità. È questo che gli ha permesso di andare a rischiare la vita, a combattere, a vederne di tutti i colori, e ad essere sempre e fino all’ultimo se stesso. Questa generosità è scevra di ogni buonismo, perché egli si rende perfettamente conto che in certi momenti storici c’è la tragica necessità di combattere e di colpire.
MARTEDÌ, 11 OTTOBRE 2011
Pagina 37 – Cultura e spettacoli
IL LIBRO
Lotte, pensieri e disillusioni di un uomo che ha vissuto
di Alessandro Mezzena Lona
Non aveva ricchezze, Umberto Tommasini. Non poteva vantare titoli accademici, meriti in campo industriale. Però, come il poeta Pablo Neruda, gli era concesso dire ad alta voce: «Confesso che ho vissuto». Perchè nel corso della sua lunga vita, iniziata sul finire del Diciannovesimo secolo, nel 1896, e terminata nel 1980, ne aveva viste di tutti i colori. Guerre, dittature, massacri, grandi sogni politici, gigantesche disillusioni. Normale che una vita come quella di Umberto Tommasini si trasformi in un libro. E visto che la prima edizione di questa autobiografica, registrata e poi trascritta con grande attenzione da Clara Germani, è sparita dalla circolazione ormai un bel po’ di tempo fa, non si può non accogliere con grande gioia l’idea di riproporla. Questa volta a pubblicare “Il fabbro anarchico. Autobiografia tra Trieste e Barcellona” è la casa editrice Odradek di Roma (pagg. 237, euro 18). A introdurre e curare il volume, ovviamente, è Claudio Venza, docente all’Università di Trieste, oltre che mente e motore di questo progetto. Che ha consegnato alla Storia la straordinaria microstoria dell’anarchico triestino. Per Tommasini, essere anarchico significava «pensare, ragionare e lottare». E lui, figlio di povera gente, nato a Trieste ma vissuto per una parte della sua infanzia, e poi della sua vecchiaia, nella friulana Vivaro, ha lottato molto in giro per l’Europa. Soldato nell’inferno della Prima guerra mondiale, dove i superiori ti sparavano addosso se osavi alzare la voce contro quel lurido scannatoio, volontario nella guerra civile di Spagna, dove i comunisti pensavano quasi più a fare fuori gli anarchici che a combattere contro i franchisti, non ha smesso di sognare un mondo migliore nemmeno quando è rientrato a Trieste dopo la caduta del fascismo. Una Trieste piena di problemi. E in queste memorie, che Claudio Magris ha definito «uno dei libri più vivi degli ultimi anni», non risparmia nessuno. Soprattutto quelli come Vittorio Vidali che, secondo Tommasini, avrebbero potuto davvero costruire un’Italia, un’Europa più vicine ai poveri, ai lavoratori. E che, invece, si sono perduti dentro complicati giochetti politici.