Il 27 giugno si manifesta in tutta Italia contro il governo turco guidato dal partito conservatore-religioso AKP del presidente della repubblica Erdoğan e dal partito fascista MHP.
Abbiamo voluto partecipare simbolicamente a questa giornata di mobilitazione esponendo davanti a luoghi simbolici della città lo striscione “Rompere il silenzio. Basta massacri in Turchia e Kurdistan”: RAI regionale, il quotidiano “Il Piccolo” e Autorità Portuale. Infine lo striscione è stato affisso sul ponte verso Valmaura.
Con questa iniziativa abbiamo voluto porre l’attenzione sia sulle responsabilità dei media che stanno facendo passare sotto silenzio il nuovo attacco turco contro la popolazioni ribelli in Kurdistan che gli interessi economici dello stato turco che passano anche attraverso il porto di Trieste, uno dei più coinvolti nel traffico merci con il regime di Ankara.
Il 15 giugno lo stato turco ha attaccato con intensi bombardamenti aerei varie località nel nord dell’Iraq, tra cui Şengal, Maxmur e Qandil, per lanciare il 17 giugno una nuova campagna di guerra con un’incursione via terra impiegando truppe speciali. Questi attacchi minacciano innanzitutto le popolazioni locali e di profughi già martoriate dai conflitti, tra cui la popolazione ezida. Si contano infatti già numerose vittime civili. La nuova operazione di guerra lanciata dalla Turchia – nominata “Artiglio di tigre” – punta a far naufragare ogni tentativo di costruire la pace nell’area mesopotamica, a colpire le forme di autogoverno nella regione e a indebolire ogni prospettiva rivoluzionaria e di liberazione. Anche il governo di Ankara, come ogni altro governo del mondo, utilizza la guerra per esercitare un più rigido controllo repressivo all’interno delle sue frontiere e per imporre il consenso sul proprio operato di fronte alle minacce per la nazione. Con l’attacco ad Afrin nel 2018 lo stato turco ha avviato una fase di espansionismo imperialista che ha acuito la crisi economica del paese, e che sta portando la popolazione nel vicolo cieco della miseria e della guerra. Lo stato turco non conduce questa guerra da solo. Le ultime operazioni sono state effettuate con la cooperazione dell’Iran che ha effettuato dei bombardamenti con l’artiglieria. Ma la Turchia è anche parte, insieme all’Italia, della NATO, che a vari livelli sostiene la politica militare turca.
Tra i numerosi paesi che sono partner della Turchia nel fiorente commercio degli armamenti, assieme ad Israele c’è anche l’Italia. Due giorni dopo l’avvio dell’operazione “Artiglio di tigre” si è recato ad Ankara per incontrare il proprio omologo il ministro degli esteri italiano Di Maio, quello che aveva promesso invano lo stop alla vendita di armi verso la stessa Turchia che oggi dichiara “importante partner commerciale”. Tra i principali fornitori di armamenti allo stato turco c’è la Leonardo, multinazionale dell’industria bellica, di cui il maggior azionista è il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Il governo italiano è quindi complice e responsabile della politica di repressione e di guerra condotta dallo stato turco.
La grande ondata di proteste e azioni che lo scorso autunno vi sono state in Italia contro l’operazione “Fonte di Pace” lanciata dalla Turchia contro l’autogoverno della Siria del Nord e l’esperimento confederalista animato dal movimento curdo non è stato solo un sostegno politico alla resistenza delle forze di autodifesa ma, con la pressione esercitata sul governo a partire dalle piazze, dalle azioni, dalle manifestazioni, ha spinto il governo ad annunciare il ritiro della missione militare italiana “Active fence” in difesa dello spazio aereo turco.
In Turchia sono decine di migliaia le persone prigioniere politiche chiuse nelle carceri, e spesso alla privazione della libertà e alla reclusione per queste persone si aggiungono i trattamenti inumani e degradanti cui sono sottoposti nelle prigioni, queste brutali condizioni hanno raggiunto il massimo dell’abominio durante l’attuale pandemia del Covid-19. L’amnistia concessa a causa dell’emergenza sanitaria da parte del governo turco ha permesso a 90000 persone di lasciare le celle ma da tale provvedimento sono stati esclusi i condannati per reati di natura “politica”. Questa limitazione ha impedito la liberazione di circa 50000 persone detenute che sono parte di associazioni, partiti e sindacati, intellettuali, giornalisti, studenti, artisti, militanti e attivisti in genere.
È in questo contesto che tre membri del progetto musicale comunista Grup Yorum hanno condotto fino alla morte lo sciopero della fame con cui da mesi chiedevano tra le altre cose l’annullamento del divieto ai concerti del gruppo, e la scarcerazione dei suoi membri. Tra coloro che sono detenuti per motivi politici oltre a esponenti dell’opposizione democratica, ai militanti della sinistra rivoluzionaria, ai socialisti, ai comunisti e agli anarchici, vi sono anche molti attivisti dei movimenti curdi. Tra questi ultimi, 5000 sono membri del Partito Democratico dei Popoli, l’HDP, che sostiene i diritti delle minoranze e le istanze curde. Lo stato militarista turco ha sempre soffocato ogni aspirazione alla libertà della popolazione sotto il peso di una violenta repressione. Lo stato di emergenza è finito da due anni ma la repressione continua ancora oggi. Il 4 giugno i deputati di HDP Leyla Guven e Musa Farisoğulları e il deputato del CHP Enis Berberoğlu con un ulteriore atto autoritario sono stati privati del loro mandato parlamentare e incarcerati.
Mentre il 15 giugno le manifestazioni organizzate ovunque nel paese anatolico in occasione della “Marcia per la democrazia” lanciata dal HDP sono state attaccate dalla polizia che ha lanciato lacrimogeni malmenato e arrestato i manifestanti tra cui anche consiglieri e deputati.
Non è un caso che nel contempo si inasprisca la guerra portata dallo stato turco in Kurdistan.
Rompiamo il silenzio sulla guerra portata avanti dallo stato turco!
La solidarietà internazionale è più che mai necessaria!
Gruppo Anarchico Germinal