La Libia è stata colonia italiana dal 1911 alla Seconda guerra mondiale: un territorio che ha resistito ininterrottamente al tentativo di penetrazione e soggiogamento dei colonialisti liberali e poi fascisti. Oggi è il punto di convergenza delle rotte migratorie africane ed è anche la terra più ricca di petrolio (38% del petrolio africano) e più politicamente instabile dell’Africa mediterranea. Capire cosa succede lì è fondamentale per affrontare il discorso migratorio da un punto di vista strutturale e anti-retorico.
In questo incontro, ricostruiremo la storia della «cooperazione» tra Italia e Libia nel contrasto dei movimenti migratori irregolari (ad es., attraverso la cessione di mezzi di pattugliamento, la costruzione di lager detentivi e il progetto della costruzione di un muro alla frontiera meridionale), ripercorrendo tutti gli accordi ufficiali, non ufficializzati e segreti firmati a partire dal 2003. Faremo una mappatura delle aziende italiane presenti sul territorio libico, che muovono miliardi di dollari con l’estrazione del petrolio e del gas e con la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali, e parleremo in particolare del ruolo geopolitico dell’ENI. Racconteremo come le stesse milizie che presidiano i pozzi petroliferi e che si sono arricchite per mesi con il «traffico illegale» di persone siano ora pagate dall’Italia per impedirlo.
La storia e il presente della Libia mostrano con violenza come la questione migratoria contemporanea sia all’incrocio di equilibri economici e geopolitici e muova capitali e guerre di potere e di influenza. La destabilizzazione politica e sociale portata avanti dai Paesi a capitalismo avanzato nei Paesi dai quali provengono i flussi migratori è la causa fondante della necessità delle persone di spostarsi.
L’atteggiamento di umanitarismo pietista verso le persone migranti è allora pericoloso quasi quanto la chiusura razzista, perché allo stesso modo non ne riconosce la piena capacità di decidere per sé stesse e le pone a un livello inferiore della gerarchia degli esseri umani. Al contrario, partiamo dalla presa di coscienza delle responsabilità dirette del modello «di sviluppo» italiano, e non solo, nella devastazione neocoloniale di una parte del mondo – la parte da dove si è costrette/i a partire. E iniziamo a muoverci di conseguenza.