Tutto cominciò con uno scatto d’orgoglio. Nell’estate del 1969, un gruppetto di studenti, più o meno libertari – il termine “anarchici” era troppo forte! – sognava un movimento studentesco indipendente dal PCI. Verso quei giovani indisciplinati la diffidenza del Grande Partito, che pure metteva a disposizione il suo ciclostile, si palesò già al corteo del Primo Maggio 1969, quando il servizio d’ordine del PCI-CGIL strappò di mano le bandiere rossonere lasciando portare solo quelle rosse. Beata ingenuità degli inesperti: quegli studenti ritenevano che entrambe potessero sfilare in nome del pluralismo del movimento operaio. In quell’occasione Umberto Tommasini (vedi A 330) intervenne in difesa della bandiera rossonera, di fronte ad un Vittorio Vidali sorpreso di reincontrare degli anarchici, ancora vivi nonostante lui.
Pochi mesi dopo, il Collettivo Libertario Studentesco si unì ad Umberto e ai vecchi compagni del Gruppo Germinal (fondato nel 1946 insieme al giornale), per aprire una sede. Era stato preso in affitto un vecchio e malandato appartamento al secondo piano di via Mazzini 11 che aveva, però, tre pregi: l’ampiezza, la centralità e un grande balcone che sembrava fatto apposta per striscioni e bandiere. Attraverso una sottoscrizione tra i compagni di diverse tendenze, ma vicini al movimento del Sessantotto, tutti desiderosi di poter stampare autonomamente i propri volantini, nel giro di qualche mese venne comprato un ciclostile manuale per 30.000 lire. La sede diventò così il centro di un’attività frenetica ed entusiasta per centinaia di giovani, mentre compagne e compagni anziani continuavano a ritrovarsi in un più tranquillo e caldo caffè.
Con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 (16 morti) e con l’assassinio di Pino Pinelli, lo Stato si presentò col volto esplicito della repressione, determinando una scelta tra i giovani: dal generico e vago libertarismo si passò all’impegno nel movimento anarchico specifico. Le perquisizioni e i sequestri abusivi di documentazione nelle case dei compagni raggiunsero anche la sede, che per molti anni dovette subire periodiche intrusioni poliziesche. “Attenti, qui ci sono le bombe!” disse Umberto agli agenti che gli avevano imposto di aprire un armadio pieno di… libri.
Il pesante clima repressivo e la feroce campagna contro gli anarchici dissuasero i collettivi studenteschi dal frequentare la sede, ma non impedirono l’inizio di una capillare campagna di controinformazione sulla strage di Piazza Fontana. Il momento più alto della mobilitazione locale si verificò a fine febbraio 1972, in concomitanza con l’inizio del processo a Valpreda a Roma. Dal rione popolare di San Giacomo scese in città un corteo di 500 persone, di cui la metà con le bandiere nere e rossonere, che si fermò davanti alla Questura, per denunciare l’assassinio di Pinelli, e si concluse poi sotto la sede, troppo piccola per tutti. Nella Trieste divisa tra nostalgici dell’Austria e nostalgici del fascismo si stava facendo spazio un nuovo movimento libertario con una forza sorprendente e che suscitava una diffusa simpatia, dimostrata anche dalle centinaia di copie di “Umanità Nova” vendute ogni settimana.
La nostra presenza continua davanti alle fabbriche e la collaborazione con i collettivi operai di base, scatenò le ire della triplice sindacale. Anche per questo motivo cominciarono a fioccare le denunce e i processi che accompagneranno le attività in pratica fino ai giorni nostri.
Si diffusero in quel periodo nel movimento anarchico italiano le idee archinoviste, accentratrici e fautrici della responsabilità collettiva. Un acceso dibattito ebbe luogo anche a Trieste e portò a una rottura all’interno del Gruppo e alla successiva uscita di un nutrito numero di giovani dalla sede.
Fuori dal covo: incontro con il movimento
Seppur decimati e notevolmente abbattuti, ma sostenuti dai vecchi compagni, iniziò un lungo periodo di intensissima attività che portò compagni e compagne a impegnarsi su diversi argomenti, dalla scuola al mondo del lavoro, dalla controinformazione all’antifascismo. Uscendo dalla angusta dimensione locale, il gruppo si aprì verso il più ampio movimento di lingua italiana – soprattutto la Federazione Anarchica Italiana, alla cui fondazione nel 1945 il Germinal aveva contribuito – e si allacciarono rapporti, tuttora molto stretti, con i compagni del Friuli e del Veneto. Anche il giornale, che usciva tutti gli anni il 1° maggio, diventò un luogo di dibattito e confronto aperto a molteplici collaborazioni e la sede fu teatro di concitate e allegre assemblee redazionali.
Le iniziative si indirizzarono principalmente verso l’antimilitarismo con decine di mostre in piazza contro i danni degli eserciti (dal Cile all’URSS, dagli USA all’Italia) contro la leva obbligatoria e le servitù militari. Ci furono varie marce antimilitariste; quella del 1975, sul percorso Trieste-Aviano, sancì la rottura con i Radicali di Marco Pannella e si interruppe, ancor prima di iniziare, di fronte alla loro volontà di difendere il sindacato di polizia e gli “ufficiali democratici”; gli anarchici abbandonarono la marcia, dimostrando di non essere gregari di nessuno. Un centinaio di compagni solidali, arrivati da tutta la penisola, invase la sede. Da qui partì una serie di manifestazioni antimilitariste che percorsero la regione coinvolgendo migliaia di persone e centinaia di soldati di leva. In quei giorni di fine luglio cominciarono a concentrarsi sugli antimilitaristi anarchici della regione le attenzioni di vari corpi statali: carabinieri e polizia politica, e perfino i servizi segreti, che per anni non abbandonarono la preda. La magistratura iniziò a processare i compagni più attivi e determinati, per dimostrare che con le forze armate non si scherza e per dissuadere i “guastafeste”, secondo la definizione di un giudice togato.
Ma Nella seconda metà degli anni Settanta si dovettero fronteggiare anche gli attacchi dei fascisti, che più volte tentarono l’assalto alla sede, nonché il livore degli stalinisti del PCI e della CGIL. L’intervento violento del servizio d’ordine del PCI al corteo del Primo Maggio del 1977 si spiega come una vendetta per le scottanti sconfitte subite nelle scuole e all’Università, dove il Partito era stato addirittura espulso da un’Assemblea per aver impedito agli studenti “estremisti” la partecipazione ad un corteo. Le aggressioni, avvenute sotto gli occhi compiaciuti degli sbirri, si concretizzarono con l’uso di chiavi inglesi, bastoni e tirapugni, che colpirono nove compagni e compagne e lo spezzone delle femminista. Nei giorni seguenti “L’Unità” pubblicò la richiesta di chiudere i covi sovversivi a Trieste. Non ci voleva molta fantasia a identificare per indovinare di quale covo si trattasse, visto che i gruppi extraparlamentari erano già caduti in una crisi irreversibile, mentre quelli emergenti – femministe e autonomi – non avevano locali propri.
Sempre nel 1977 – anno di grandi eventi – la sede ospitò varie riunioni col collettivo francese antipsichiatrico Marge, venuto a Trieste per contestare i fasti ambigui di Basaglia e soci.
Verso la fine dell’anno la sede fu punto di incontro per gli occupanti dell’ appena sgomberato Centro Sociale di via Gambini, per l’organizzazione di iniziative contro la repressione e l’incarcerazione di una decina di compagni.
La lunga stagione di fermento con riunioni pressoché quotidiane, con la nascita di collettivi studenteschi, la redazione del foglio interregionale Cre/azione, le numerosissime manifestazioni di piazza, il vivace dibattito politico dentro e fuori il movimento anarchico si stava chiudendo. Gli “anni di piombo” – il piombo dei proiettili polizieschi contro i compagni e quello delle galere che si chiudevano alle loro spalle – erano cominciati.
La sede diventò allora centro propulsore di una nuova iniziativa: una compagna e un compagno, con il sostegno ideale e pratico del gruppo, aprirono la libreria “Utopia 3” che per qualche anno promosse dibattiti, conferenze, presentazioni di libri e si propose come luogo stabile di incontro dell’area alternativa della città.